IL MACCHINISTA- RACCONTO

IL MACCHINISTA

Ore 2.58. La sveglia suona: in realtà è il cellulare. Nessuno più usa una sveglia ormai. Metterla alle 2.58 lo aiuta psicologicamente; se fosse puntata alle 3 gli verrebbe l’ansia che dopo solo un’ora deve essere in stazione Brignole e attaccare servizio. Fa il macchinista dei treni, un lavoro che ama e che si è scelto, ma che talvolta assorbe tutte le sue energie.

La spegne, strisciando verso destra l’indice sullo schermo, si stropiccia gli occhi, si mette seduto sul bordo del letto e si sostiene la testa con le mani, gomiti sulle cosce. Oggi è dura. Ha tanto sonno. Ma si deve alzare, il suo senso del dovere è fortissimo, più di qualsiasi raffreddore, mal di gola, periodo di stress. Non ha mai preso un giorno di malattia in 30 anni di servizio. Oggi ne ha 52 e inizia a sentirsi un po’ stanco. Forse la pensione non è lontana: hanno inserito anche il suo tra i lavori usuranti.

Si alza, testa a ciondoloni, braccia lunghe e abbandonate contro i fianchi, scalzo, con indosso solo la sua maglietta bianca slabbrata e i boxer neri, si dirige in bagno. La pipì la fa da seduto, così può tenere gli occhi chiusi ancora un po’ e non ha acceso la luce per non vedere la sua immagine riflessa nello specchio sopra il lavabo. Da qualche anno si vede davvero invecchiato e la mattina, anzi la notte fonda, l’immagine che lo specchio gli rimanda è impietosa.

Si alza dalla tazza, finalmente apre gli occhi e li posa sull’orologio digitale posato sulla mensola di fronte. Sono già le 3.03. Ha un’ossessione per l’ora. Ha orologi in ogni stanza, di ogni tipo. Sveglie, orologi grandi, orologi piccoli, digitali e analogici ed è uno dei pochi ad indossare ancora un orologio da polso. Deve sbrigarsi. Illumina il piccolo bagno, apre l’acqua fredda e sciacqua il viso più volte per lavare via l’ultima parvenza di sonno. I rimasugli di un sogno a metà. Poi finalmente osserva la sua immagine riflessa.

‘Ieri questo solco sulla guancia non c’era e questi peli dal naso, maledetti, li devo tagliare’, arriccia il naso. Allunga la mano verso le forbicine e con meticolosa pazienza taglia i peli del naso e dopo attenta disamina, anche quelli delle orecchie.

‘Che faccio? Mi rado?’, si osserva il volto, a destra e a sinistra, tira la guancia storcendo la bocca e contemporaneamente si tira e carezza la pelle. Sì, si deve radere, senza ombra di dubbio. Apre il cassettino, il primo,  prende il rasoio elettrico e lo accende. ‘Oggi questo, poi domani la faccio come si deve … tanto non sarà oggi che incontro la donna della mia vita’. E’ sempre molto autoironico con se stesso, a volte sin troppo critico.

E’stato un bell’uomo e lo è tutt’ora, anche se le difficoltà della vita lo hanno segnato tanto, nel fisico e nell’animo.

Dopo le abluzioni mattutine va in cucina per la colazione. Sguardo al quadrante con le lancette, che imperterrite avanzano. Le 3.15.

Si prepara il latte caldo, ci mette il caffè solubile, si siede e spezzetta in un’enorme tazza una rosetta intera, leggermente rafferma. Ci versa sopra il latte. Ecco pronta la zuppa. Affonda il cucchiaio nella pappa calda e nel portarsi il primo cucchiaio alla bocca si sbrodola di latte la barba, il pizzetto, quello che ha lasciato a contorno di labbra e mandibola e che risale verso la basetta congiungendosi con essa. E’ uno stratagemma del suo barbiere perché ha l’osso mandibolare molto largo. ‘Accidenti’ pensa asciugandosi con il tovagliolo di carta e intanto continua a sorbire la sua zuppa di pane che per lui è un vero e proprio ‘confort food’. Sua mamma aveva un forno, lui è cresciuto a pane: pane in tutti i modi. Zuppa di pane al mattino, pane, olio e sale come merenda a scuola, pane, burro e zucchero al pomeriggio, frittate e sformati di pane alla sera. Burro, latte e uova non mancavano mai abitando in campagna. Quando da piccolo stava al forno con la mamma si addormentava nelle ceste del pane e il profumo del pane appena sformato lo faceva svegliare con l’acquolina in bocca. Un giorno un’amica lo ha definito un pezzo di pane, un uomo buono, e non ci è andata tanto lontano.

Occhiata furtiva all’orologio. 3.23. ‘Mi devo sbrigare’, sta per andare nella sua stanza per vestirsi, ma una fitta all’intestino lo avverte che il bisogno fisiologico è impellente. ‘Diamine, proprio ora’, pensa con sconforto, ma sa che è meglio. Certe mattine il pensiero di non aver evacuato lo manda in tilt. Non può certo assentarsi dalla guida per andare al wc e le volte che gli è capitato di sentire il bisogno e di non poter andare si è sentito male. Talvolta passano ore. Così si sbriga, va al bagno, fa quello che deve fare, usa salviette umidificate per fare prima e quasi di corsa torna in camera da letto. La divisa è appesa. Quella la odia. In fondo in fondo si sente un po’ anarchico e la divisa lo fa sentire omologato. Poi lui è macchinista, è diverso, non è un capotreno che va in mezzo alla gente. Si sporca anche le mani. Se ne sta chiuso nella cabina di guida e non vede nessuno. Solo i monitor e i binari davanti a sé. Quando li vede.

Però in quel momento c’è un giro di vite sulle regole. La tutela dell’immagine del gruppo e il rispetto degli elementi distintivi aziendali sono quello che chiedono. Barba fatta, divisa, cura della propria immagine e modi gentili verso l’utenza. Poi va a periodi. Altre volte nessuno controlla che i macchinisti non arrivino in felpa e jeans.

Giacca blu, pantaloni blu, golfino blu, camicia azzurra e scarpe antinfortunistica. Quelle servono davvero, l’altro giorno a Luca Siri è caduto l’estintore che aveva prelevato per spegnere un principio di incendio in una carrozza e gli ha spappolato tre dita di un piede. Aveva le scarpe da tennis. Oltre al danno la beffa, lo hanno anche sanzionato per inosservanza delle regole aziendali.

3.29. ‘Sono in orario’.

Prende il giaccone, anche quello blu con il logo FS verde, bianco e  rosso sul petto.  Questo non gli dispiace: è termico e idrorepellente e gli consente di non spendere soldi in un giaccone caldo.

Prima di indossare lo zainetto, accessorio fondamentale per un macchinista, controlla sul tablet che non ci siano variazioni sugli orari. ‘Tutto a posto, posso andare’. Prima di uscire apre la porta della stanza di sua figlia e la bacia virtualmente. Lei si alzerà ore dopo per andare all’Università. Dopo anni di battaglie legali è riuscito ad averne l’affido esclusivo ed è il suo bene e il suo successo più grande. Anche se spesso sente la mancanza di una donna accanto, nella sua vita. Ci ha provato, ma nessuna storia è andata in porto. Non ha ancora capito bene perché.

‘Dove ho messo l’auto?’ e si guarda intorno. La scorge, grigia, tra un Fiat L rossa e una vecchia panda viola. ‘Strano colore’, pensa mentre si siede sulla sua e accende il quadro. La lascia scaldare un paio di minuti, si attiene sempre ai consigli che gli vengono dati e quello risaliva al momento dell’acquisto: ‘La lasci sempre scaldare un paio di minuti, prima di partire; tutti accendono e partono, ma è sbagliato’ gli aveva detto il venditore e lui non se lo era mai più scordato. Anche in piena notte la fa scaldare a motore acceso, ferma.

L’ora sul cruscotto: 3.35.

Nei giorni che non deve iniziare così presto predilige prendere la Metro e i bus, anche quando finisce di notte che ci sono solo gli extracomunitari che si spostano con i mezzi. Ma a quell’ora i mezzi pubblici sono quasi inesistenti e deve per forza usare la sua auto.

In venti minuti raggiunge il centro città. Il traffico è zero, i semafori lampeggianti.  Lavorano solo i panettieri e qualche forno tiene anche aperto di notte, per chi torna dalle discoteche.

Posteggia nel piazzale riservato al personale e si incammina verso la Stazione.

Alle 3.59 accede dal tablet alla timbratura elettronica e segnala l’inizio del servizio. Tutto come stabilito.

Cammina curvo, con la testa incassata tra le spalle, è alto, forse un metro e ottanta o poco più, ma anziché esaltare la sua statura, avanzando dritto e fiero, la nasconde e procede con lo sguardo più verso terra che avanti a sè.

“Ciao Silvano”, saluta un altro macchinista che incontra.

“Ciao Marco”, gli fa eco il collega.

“Freddo, eh?”, facendo uscire uno  sbuffo di vapore con la bocca e strofinandosi velocemente le mani, palmo contro palmo.

“Già, maledetto inverno. Finirà!”.

“Si, anche se io patisco più d’estate. In cabina con il caldo è una tortura, non mi piace accendere l’aria condizionata”.

“A chi lo dici, nemmeno a me, due ore con l’aria fredda sparata sulla testa e scendo con l’emicrania”.

“Infatti”.

“Però, belin, stamattina fa freddo, ci sarà un grado”.

“Due, ce ne sono due, l’ho visto sull’orologio del palazzo di fronte. Ma a Milano saremo sotto zero”.

“Vai a Milano?”.

“Sì, aspetto il regionale veloce  che viene da Sestri Levante, do il cambio al collega, sto là meno di due ore e poi torno con l’Intercity 659 delle 9:10. Finisco a Principe alle 10:42. Oggi è un servizio del belino… ora devo preparare due treni”.

“Già, io vado a Torino con il regionale Veloce delle 5:21. Non che là faccia caldo, credo”.

Sono anni che si dicono sempre le stesse cose. Il freddo che fa, dove vanno, quando tornano, la destinazione, il turno massacrante. L’aria condizionata troppo forte. L’aria condizionata rotta. Le regole sull’abbigliamento. Il sonno. Il mangiare male.

Non è per lamentarsi, fa parte di una routine. Tutti loro amano quel lavoro. Quelli un po’ più anziani. Alcuni giovani invece ci si sono trovati per mancanza di altre scelte e non se sono così entusiasti. E’ un lavoro che toglie tanto alla propria vita personale e i turni faticosi sono stressanti per il fisico e la mente.

Si salutano. Ognuno va a fare i suoi controlli, le sue mansioni.

Il regionale veloce che deve portare sino a Milano arriva con 5 minuti di ritardo. Sono le 5:41.

Il collega scende, si scambiano due informazioni sulle porte rotte, su qualche carrozza un po’ più fredda, alcune troppo calde, così giusto per saperlo, tanto loro non ci possono fare nulla, il capotreno tantomeno, ma si sa come funziona. La gente se la prende con loro. Meglio essere preparati, sapere cosa succede, almeno si può sempre dire che hanno provveduto alla segnalazione o che stanno ponendo rimedio. Poi, magari non è vero.

L’apparenza è molta, l’organizzazione non sempre altrettanto.

Bene lo sanno i pendolari che ogni tanto per protesta occupano i binari o formulano reclami contro il pagamento delle tariffe, a  fronte di grandi disagi e disservizi.

Alle 5:43, con 9 minuti di ritardo il RV 2180 per Milano Centrale può partire. Sono minuti recuperabili nel tragitto, Marco non si preoccupa.

Sono previste sette fermate. Tra Principe e Arquata è meglio che si attenga alla velocità minima, è un tratto appenninico. Dopo ci saranno Tortona, Voghera e Pavia e in quei tratti pianeggianti può tentare di recuperare un paio di minuti a stazione. Potrebbe arrivare a Milano Centrale con due minuti di ritardo solamente.

Si è tolto il giaccone, che lo ingombra nei movimenti, in cabina fa molto freddo ma preferisce non alzare il riscaldamento perché il caldo rischia di fargli venire sonno.

Superato Ronco c’è la neve. Non si vede perché è ancora buio. Ma attorno ai binari se ne vedono dei monticelli.

‘Che posti … non so se ci abiterei. Va bene la campagna, ma qua sei fuori dal mondo. Certo che forse meglio del condominio … meno male però che papà, pace all’anima sua, almeno mi ha lasciata quella di casa. Anche per Sara è meglio, almeno da lì può prendere il bus e andare a scuola. Certo, non siamo in centro, ma meglio di dove sta mamma, che ci vuole il taxi bus. Però magari, il giorno che mamma non ci sarà più e Sara sarà diventata più grande, magari con la patente, potrei vendere l’appartamento e ristrutturare la casa in campagna. Potrei prendere un cane, delle galline, mettere due pomodori, un tavolo fuori per mangiare d’estate all’aperto … ’.

Mentre pensa conduce il treno ad Arquata Scrivia. Il capotreno scende, controlla, fa salire i passeggeri, per lo più pendolari che vanno a Milano a lavorare. Controlla l’ora. Non sono in anticipo, anzi hanno ancora 8 minuti di ritardo. Muove il fazzoletto verde come segnale di tutto ok, fischia forte, le porte si richiudono e il treno riparte.

Sergio, il capotreno, va in cabina di guida. Scambiano due parole e si raccontano due fatti, non con tutti si va d’accordo. Alcuni colleghi sono più simpatici, altri meno. Con Sergio si parla bene, è un padre di famiglia, uomo tutto d’un pezzo, come quelli di una volta. Persona leale e sincera, a cui ogni tanto Marco ha anche confessato qualche guaio personale. Non lo fa con tutti. Anzi, è molto riservato e poco incline alle confidenze, ma dopo tanti anni ha capito di chi può fidarsi.

“Belin, Marco, che freddo fa qui dentro, tanto non è che ti conservi, eh!! Se alzi di qualche grado non ti decomponi” e fa una risata grassa di catarro, tipica del fumatore.

Marco non si offende, anzi, ride a sua volta e fa una battuta scurrile: “Cosa ti credi, ci tengo a restare duro, il freddo aiuta!”. Lui non è mai stato goliardico, ma col tempo ha capito che questo tipo di battute lo avrebbero aiutato a integrarsi. Anche le donne, in un ambiente storicamente maschile, lo hanno imparato e  si lasciano andare a battute che normalmente non farebbero in presenza di maschi. Ma in ferrovia è diverso, nessuno ti giudica per una battuta goliardica o un apprezzamento a sfondo sessuale. Anzi, semmai è il contrario.

“Ahahah, allora dimmi, dimmi, come va le con le donne?”, domanda schiacciando l’occhio, ma saltellando sui piedi e strofinandosi le braccia.

“Come vuoi che vada? Dopo l’ultima, con cui sono stato 6 mesi fa, più nulla. Mi ha lasciato dicendomi che gli sembrava di stare con me da vent’anni, e non è la prima che me lo dice. Pazienza. Poi, sai, non è che io abbia tutto ‘sto tempo per cercare una donna …”, intanto controlla la strumentazione, un occhio all’orologio, alza la temperatura perché effettivamente sente freddo anche lui, ora, ha le mani intirizzite, fa fatica quasi a muoverle.

“Va bon’, vado nelle carrozze a controllare i biglietti, che qui si gela e finisce che mi fai ammalare. Poi mi fermo a redigere un paio di schede in prima carrozza, ok?”, e Sergio se ne va, lasciando Marco ai suoi pensieri.

Tortona. 6:37. Il cielo dovrebbe iniziare a rischiarare, ma c’è una nebbia che si taglia con il coltello e non si vede assolutamente nulla. Il treno riparte per Voghera.

‘Già, vent’anni che stiamo assieme, non la capisco mica bene questa cosa. Cosa vorrà dire una donna quando ti dice così? Che si annoia? Che non gli basti più? E cosa dovrei fare? Oltretutto ci vedevamo così poco che non capisco come si faccia a pensare che sembrano vent’anni. Ma forse era questo: ci vedevamo troppo poco. Certo che quando ci incontravamo … non che le dispiacesse venire a letto. Che anche qui non capisco, così bravo a letto, così attento come me non ce n’era, così passionale, e poi mi molla. Un po’ mi manca. Bella è bella, due tette stratosferiche … una passione tra le lenzuola, una vera amazzone. Chissà quando me la faccio un’altra trombata, sono stufo di astinenza’, i pensieri si susseguono, prima pensa alle donne, poi a sua figlia che non sa bene a che punto è all’Università e che deve controllare che non gli racconti delle storie, poi pensa alla prossima riunione dei fan di Star Trek, unica sua passione e intanto arriva a Voghera.

6:46. C’è sempre nebbia. Apre il finestrino per vedere il capotreno fare il segnale dal marciapiede ed entra una sferzata di aria fredda che sembra acqua, tanto è alto il tasso di umidità. Prima di ripartire mette il riscaldamento al massimo perché avverte un leggero tremore. Spera che non sia l’influenza. Quest’anno ha colpito tanti e lui spera sempre di evitarla, al massimo si becca un herpes labiale o una tracheite, ma la febbre mai.

Fa le successive stazioni in stato di trance, tra pensieri e tremori: Pavia, Milano Rogoredo, poi Lambrate, infine a Milano Centrale alle 7:37. Come previsto, due minuti di ritardo.

Tutto bene. Saluta Sergio e va a fare colazione. A casa mangia pane e latte ma al bar predilige fagottino alla Nutella e caffè. Mentre mangia adocchia una collega. Mai vista. ‘Mazza che bona’, pensa. ‘Sarà un nuovo acquisto, ci sono state diverse assunzioni ultimamente’. E’ piccolina, bionda, forse tinta, ma non ha importanza. E’ un capotreno, lo capisce dalla divisa. E’ formosa. Si intuisce un seno generoso e fianchi abbondanti. Ha gli occhi grandi, neri, le ciglia lunghe e ricurve, la bocca a cuore, appena appena truccata di rosa. Avrà 35 anni, qualche sottile ruga intorno agli occhi c’è. Rughe di espressione, perché sta parlando con altri  colleghi  e ride spesso, non sguaiata, ma al contrario, in maniera sincera e divertita, un po’ guardando uno, un po’ guardando l’altro. Non conosce nemmeno loro. Magari sono della stazione di Milano. Poi lei sposta lo sguardo oltre la spalla del suo interlocutore e fissa gli occhi nei suoi. Lui sente un movimento all’altezza delle viscere e poi qualcosa anche più giù. Arrossisce al pensiero. Lei lo guarda e poi … con la punta della lingua si lecca il labbro superiore. Marco rimane con la brioche a mezz’aria e sbigottito si guarda intorno. ‘Io?’ formula con un labiale, aggrottando le sopracciglia e indicandosi. Lei allora scoppia a ridere, capisce il fraintendimento e scrollando la testa fa il gesto con la mano di pulirsi la bocca. Marco ha nella barba briciole di sfoglia e nutella sui baffi, lei gli stava solo indicando che era sporco.

Saluta i suoi amici e si dirige verso di lui, tendendogli la mano: “Ciao, Cinzia”.

“Ciao, piacere, sono Marco e ho appena fatto una bella figura di merda”, restituisce la stretta di mano.

“Ma va’, semmai sono stata io!” e ride, carina e anche un po’ frivola, piegando la testa di lato, mostrando il collo candido.

Dopo neanche mezz’ora i due sono nella saletta della stazione, nella stanza in fondo, quella più appartata, in preda a una passione irrefrenabile. Lingua in bocca, mani ovunque, lei che spoglia lui, lui che spoglia lei, labbra che mordono, succhiano e assaporano la pelle.

Marco ha spento il cervello. Non ha la più pallida idea di quello che sta facendo, quella donna gli ha fatto perdere la testa. Non si è mai comportato così, nemmeno da giovane, lo sa che è in servizio e non dovrebbe fare una cosa del genere. Ma il desiderio è più forte di lui, la voglia tanta e quella donna ha un sex appeal che lui neanche si è mai sognato. E’ un mix tra Pamela Anderson e Lady D, un misto di innocenza e prorompenza. Classe e sesso. Porca e santa. La vuole mangiare, leccare, annusare. Gli piace tutto di lei. Quando le leva la giacca e il golfino, le apre la camicia e le tira su il reggiseno balzano fuori due tette sode e grosse con capezzoli come olive, che lui si inchina a succhiare con tutta la sua forza e più sente lei gemere più lui si eccita e sente crescere l’erezione nei pantaloni. Cinzia è appoggiata con le natiche a un grosso tavolo di legno e vi si appoggia con le mani, inarcando la schiena e offrendogli il petto. La testa con i lunghi capelli, ora sciolti, riversa all’indietro.

Marco è inebriato dal profumo della sua pelle, dalla sue pelle liscia e morbida, dalla sua arrendevolezza.

Le bacia la pancia, lungo la linea dell’ombelico, fin giù, le solleva la gonna sui fianchi e le sfila le mutandine, come nei suoi migliori sogni erotici ha le autoreggenti e in un attimo lei è nuda e pronta. La sfiora, la sente gemere. Si apre la cintura, si cala i pantaloni e li lascia cadere alle caviglie, con i boxer, non c’è tempo per toglierli, men che meno per slacciare le scarpe antinfortunistica. La guarda voglioso, così mezza nuda mezza vestita, palpitante, disponibile e lui non si trattiene più. La penetra. Lei sussulta, poi avvinghia le gambe attorno ai sui fianchi e lo trattiene dentro di se, imponendo il ritmo. Marco non ha pensato alla protezione, alle malattie, alle gravidanze indesiderate. Non ha proprio pensato a niente! Neanche che si trovano nella saletta della pausa e che chiunque potrebbe arrivare.

Scalpiccio di passi affrettati, rumori maldestri, una maniglia viene impugnata, una porta aperta, una voce alterata che urla: “Marco, ma che cazzo stai fac …?”.

Marco dallo spavento si risveglia, l’occhio va all’orologio sulla plancia di comando. 7:06. Come 7:06?

Senza pensare, automaticamente, schiaccia i comandi di rallentamento del treno, che però decelera troppo velocemente, Sergio perde l’equilibrio e finisce scaraventato in avanti sulla plancia, inavvertitamente frena il treno. Tutto accade in pochi secondi.

Dalle rotaie si alzano scintille, l’odore di metallo e dei freni impesta l’aria, le ultime carrozze spinte dalla velocità si inclinano a destra ed escono dai binari. Il convoglio procede un paio di km, tra rumore di ferraglia, scintille, le urla dei passeggeri e i bagagli che volano dalle cappelliere fino fermarsi come un elefante ferito,  silenzioso, nella nebbia di Pavia.

Marco, sgomento, si mette le mani nei capelli, sussurra: “Oh mio Dio, che ho fatto?”.

 

Sky tg24. Edizione straordinaria. Ore 7:30.

“Stamattina pochi minuti dopo le 7 il regionale veloce 2180 diretto a Milano Centrale è deragliato  dopo la stazione di Pavia, che il treno aveva saltato, superandola a grande velocità. Pochi chilometri dopo, il treno, ancora non si sa se per un guasto tecnico o per un errore umano,  è uscito dai binari e le ultime tre carrozze si sono ribaltate. I vigili del fuoco stanno lavorando per estrarre i passeggeri dalle carrozze. Per fortuna pare che non vi sia alcun morto. Parecchi i feriti, alcuni anche gravi. Il capotreno che si trovava nella cabina di guida è stato ricoverato con un trauma cranico, una spalla lussata e diverse costole rotte. Il macchinista è stato sedato e portato via con urgenza perché in grave stato di choc.”